Una tradizione secolare, carica di significato spirituale, è oggi al centro di un’inchiesta sanitaria che ha sollevato allarme in tutta Europa. Secondo quanto riportato da diverse autorità sanitarie, alcuni recenti casi di colera sarebbero collegati al consumo di “acqua santa” non adeguatamente controllata.
Questa rivelazione ha generato preoccupazione in ambienti religiosi e medici: una pratica devozionale comune, che vede milioni di fedeli utilizzare acqua benedetta per bere, bagnarsi o portarla a casa in contenitori personali, potrebbe diventare veicolo di malattie gravi se non sottoposta a rigidi controlli microbiologici.
In particolare, le autorità hanno puntato il dito contro alcune fonti non trattate presenti in santuari e luoghi di pellegrinaggio, dove l’acqua viene raccolta e distribuita senza analisi preventive. Il rischio? La contaminazione con agenti patogeni come il batterio Vibrio cholerae, il principale responsabile del colera, una malattia infettiva acuta che può causare gravi diarree, disidratazione e, nei casi più gravi, portare alla morte.
Mentre i fedeli continuano a compiere gesti carichi di fede e simbolismo, le autorità sanitarie europee si trovano di fronte a una sfida delicata: tutelare la salute pubblica senza ostacolare la libertà di culto. Un equilibrio difficile, ma necessario, che impone una riflessione collettiva su come la spiritualità e la scienza possano coesistere nel rispetto reciproco.
Fede e rischio: l’acqua benedetta sotto esame
In molte tradizioni religiose, l’acqua assume un valore sacro e purificatore. È utilizzata nei riti battesimali, nelle benedizioni, nei percorsi di guarigione spirituale. Nei santuari più frequentati, non è raro trovare fontane o rubinetti da cui i pellegrini possono attingere liberamente acqua “benedetta” da portare con sé. Tuttavia, proprio questa pratica, tanto radicata quanto diffusa, è ora al centro di un’allerta sanitaria che non può essere sottovalutata.
Secondo l’inchiesta condotta dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), in alcuni di questi luoghi l’acqua viene distribuita senza alcuna verifica microbiologica preventiva. Alcune fonti, soprattutto quelle naturali o poco frequentate da controlli, si sono rivelate contaminate da batteri pericolosi, tra cui il temuto Vibrio cholerae. Questo microrganismo, veicolato attraverso l’acqua non potabile, è responsabile del colera, una malattia ancora presente in molte aree del mondo e che, sebbene rara in Europa, può propagarsi rapidamente in presenza di condizioni igieniche insufficienti.
L’elemento che preoccupa gli esperti è la mancanza di consapevolezza tra i fedeli. In molti casi, l’acqua prelevata viene bevuta direttamente, utilizzata per lavarsi il volto o portata a casa, spesso conservata in contenitori non igienizzati. Gesti semplici, carichi di devozione, che possono però trasformarsi in veicoli di infezione se l’acqua è contaminata.
I sintomi del colera, inoltre, possono manifestarsi in modo violento e repentino: vomito, diarrea acquosa, crampi addominali e forte disidratazione sono tra le principali manifestazioni. In assenza di cure rapide, la malattia può degenerare in poche ore. Per questo motivo, le autorità sanitarie sottolineano l’urgenza di regolamentare l’uso dell’acqua santa nei contesti pubblici, soprattutto nei luoghi ad alta affluenza.
Alcuni santuari hanno già cominciato a introdurre controlli e a utilizzare impianti di filtrazione. Tuttavia, non tutti dispongono delle risorse necessarie, e in molte realtà più piccole o remote il problema rimane. E mentre il numero di contagi accertati resta al momento contenuto, il rischio di una diffusione più ampia è reale, specialmente in estate, quando i pellegrinaggi si intensificano e le condizioni climatiche favoriscono la proliferazione batterica.
I primi casi e la risposta europea
I primi segnali di allarme sono arrivati dall’Italia e da alcuni Paesi dell’Europa dell’Est, dove si sono registrati i primi casi di infezione collegati all’acqua santa. In particolare, a preoccupare è stata la comparsa del batterio in aree geograficamente distanti tra loro, ma unite da un elemento comune: l’utilizzo di acqua proveniente da fonti religiose non controllate.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, in collaborazione con i Ministeri della Salute nazionali, ha avviato un protocollo d’emergenza per tracciare i casi, identificare le fonti di contagio e sensibilizzare le comunità religiose sul problema. L’obiettivo, chiariscono le autorità, non è quello di vietare la pratica dell’uso dell’acqua benedetta, bensì di garantire che essa avvenga in sicurezza.
“Non c’è alcuna volontà di limitare la libertà di culto,” ha dichiarato il commissario europeo alla salute, “ma è doveroso proteggere la popolazione da rischi evitabili. Le pratiche spirituali devono poter convivere con il buon senso e con le norme sanitarie fondamentali.” Un messaggio che, in molti casi, è stato ben accolto anche dalle autorità religiose.
Diversi vescovati e comunità religiose hanno infatti espresso apertura e collaborazione. In alcune diocesi italiane, sono già stati introdotti controlli periodici sull’acqua utilizzata nei santuari, e si è deciso di distribuire acqua benedetta solo da fonti trattate e certificate. In altri casi, si sta valutando l’utilizzo di recipienti monouso o di sistemi di disinfezione automatica per evitare contaminazioni.
La comunicazione resta però il nodo centrale. Non tutti i fedeli sono consapevoli dei rischi legati a un gesto che è sempre stato percepito come sicuro e benefico. Per questo, le autorità stanno investendo in campagne informative semplici ma efficaci, utilizzando anche il supporto delle parrocchie, delle associazioni religiose e dei media locali.
Le raccomandazioni includono il divieto di bere acqua non etichettata o proveniente da fonti non identificate, l’uso esclusivo di acqua benedetta distribuita da personale autorizzato e l’igienizzazione dei contenitori personali. Inoltre, si invita a prestare attenzione a sintomi sospetti, specialmente dopo viaggi o pellegrinaggi in zone ad alto rischio.
La sfida, in definitiva, è culturale: si tratta di far convivere due ambiti – fede e scienza – che spesso sembrano parlarsi poco. Ma come dimostrano gli esempi virtuosi già attivi in Europa, è possibile costruire ponti. L’obiettivo comune resta uno solo: proteggere la salute senza tradire la spiritualità.
Conclusione
La fede è un pilastro fondamentale nella vita di milioni di persone, capace di offrire conforto, speranza e senso di appartenenza. Ma proprio perché così preziosa, va vissuta con consapevolezza. L’emergere di casi di colera legati all’uso improprio di acqua santa deve servirci da monito: anche le pratiche più antiche e sentite devono adattarsi alle esigenze della salute pubblica.
Vivere la spiritualità non significa chiudere gli occhi di fronte ai rischi, ma affrontarli con responsabilità. È possibile continuare a onorare le tradizioni, partecipare ai riti e condividere momenti di fede, adottando al contempo comportamenti sicuri e informati. La collaborazione tra comunità religiose, fedeli e autorità sanitarie è la chiave per superare questa sfida senza sacrificare i valori di nessuno.
In un mondo in cui i virus e i batteri non conoscono confini, è importante ricordare che la prevenzione è un atto d’amore: verso se stessi, verso gli altri e verso quella stessa comunità di fede che si desidera proteggere. L’acqua santa potrà continuare a essere simbolo di purezza e benedizione, ma solo se sarà anche sicura. Perché la vera fede, dopotutto, è anche prendersi cura della vita.